Un team italo-svizzero ha scoperto che il bezafibrato migliora la funzione neuronale e riduce la proteina tau nei modelli cerebrali della demenza.
Un farmaco comunemente utilizzato per abbassare il colesterolo potrebbe diventare una nuova speranza contro una delle malattie neurodegenerative più gravi e precoci: la demenza frontotemporale. A rivelarlo è uno studio congiunto tra l’Istituto Italiano di Tecnologia, la Sapienza Università di Roma e l’Università di Losanna, pubblicato sulla prestigiosa rivista Alzheimer’s & Dementia.
La sostanza al centro dell’indagine è il bezafibrato, noto per la sua capacità di ridurre i livelli di trigliceridi e colesterolo. Ma ora, grazie a esperimenti condotti su organoidi cerebrali, replica in miniatura del cervello umano sviluppata in laboratorio, si è scoperto che potrebbe contribuire a contrastare i danni neuronali tipici della demenza frontotemporale.
I risultati sorprendenti dello studio: la proteina tau si riduce
La demenza frontotemporale colpisce principalmente i lobi frontali e temporali del cervello, alterando profondamente linguaggio, comportamento, controllo emotivo e personalità . In alcune forme ereditarie, la malattia è legata a mutazioni nella proteina tau, che normalmente aiuta i neuroni a funzionare correttamente, ma quando diventa patologica porta a una progressiva degenerazione cerebrale.

Partendo da cellule di pazienti affetti da questa forma genetica, i ricercatori hanno generato organoidi cerebrali con mutazione tau, riproducendo le principali caratteristiche della malattia: riduzione delle sinapsi, accumulo di proteine tossiche e calo dell’attività neuronale. Il trattamento con bezafibrato ha prodotto effetti incoraggianti:
aumento delle connessioni neuronali,
recupero parziale dell’attività cerebrale,
diminuzione dell’accumulo della tau patologica.
Effetti ottenuti senza modificare la struttura genetica, ma solo agendo a livello biochimico. Un risultato che apre nuovi scenari nella lotta contro le demenze e suggerisce l’efficacia di terapie già disponibili sul mercato, seppur con altri scopi.
Prossimi passi: rendere gli organoidi più simili al cervello umano
Lo studio non si ferma qui. Il team ha già annunciato nuovi sviluppi previsti per il 2026. Il primo passo sarà perfezionare gli organoidi, integrando cellule del sistema immunitario cerebrale, come la microglia, fondamentale nei processi neurodegenerativi.
Parallelamente, i ricercatori useranno tecniche elettrofisiologiche avanzate per studiare nel dettaglio la comunicazione tra neuroni, i meccanismi di attivazione e il modo in cui si formano le reti neurali. Un’analisi più profonda che, secondo la coordinatrice Silvia Di Angelantonio, potrà portare a individuare nuovi bersagli terapeutici utili non solo per la demenza frontotemporale, ma per un ampio spettro di malattie neurodegenerative.
In un momento storico in cui l’invecchiamento della popolazione europea rende sempre più urgente il trattamento di malattie come Alzheimer e demenze correlate, questa scoperta rappresenta un segnale concreto di progresso nella ricerca. E la possibilità di riutilizzare un farmaco già approvato per altri scopi potrebbe accelerare in modo significativo i tempi di sviluppo clinico.
Quando un farmaco pensato per tutt’altro scopo mostra potenzialità neuroprotettive, si apre un capitolo nuovo nella medicina moderna. L’approccio italiano dimostra che è possibile ripensare l’uso di molecole esistenti, risparmiando anni di ricerca e milioni in investimenti. In un’epoca in cui ogni progresso conta, la speranza potrebbe arrivare da ciò che già conosciamo.