Le sanzioni delle Nazioni Unite contro l’Iran sono state ripristinate a dieci anni dalla firma del fondamentale accordo sul nucleare, conosciuto come Piano d’Azione Congiunto Globale (JCPoA), siglato nel 2015. Questo provvedimento segue il fallimento dei negoziati che si sono svolti nei mesi scorsi, i quali non sono riusciti a riportare Teheran al rispetto degli obblighi previsti dall’intesa. Nonostante i tentativi diplomatici volti a salvaguardare l’accordo, la situazione è degenerata.
Le origini della crisi
L’accordo del 2015, fortemente sostenuto dall’amministrazione del Presidente americano Barack Obama, prevedeva un allentamento delle sanzioni internazionali in cambio di una significativa riduzione del programma nucleare iraniano. Tuttavia, nel 2018, il Presidente Donald Trump decise di ritirare unilateralmente gli Stati Uniti dal JCPoA, reintroducendo severe sanzioni. Questa decisione portò l’Iran a violare gradualmente i termini dell’accordo, iniziando ad arricchire uranio oltre i limiti stabiliti.
Il 22 giugno scorso, gli Stati Uniti, in collaborazione con Israele, hanno avviato l’operazione “Martello a mezzanotte”, effettuando raid aerei mirati per distruggere o danneggiare gravemente le principali strutture nucleari iraniane, comprese quelle di Fordow, Natanz ed Esfahan. Questi attacchi hanno visto l’impiego di bombardieri strategici B-2 Spirit e l’uso di bunker busters, progettati per colpire anche impianti sotterranei.
Nonostante Teheran abbia minimizzato i danni subiti, le azioni militari hanno suscitato forti reazioni di condanna da parte di paesi come la Russia, innescando una pericolosa escalation. L’Iran ha risposto colpendo basi statunitensi nella regione e ha minacciato di considerare la responsabilità degli Stati Uniti per tali attacchi come un elemento cruciale in qualsiasi futuro negoziato. Tuttavia, i colloqui sono falliti, portando infine al ripristino delle sanzioni da parte delle Nazioni Unite.