Nel contesto della ricerca sui disturbi cognitivi, emergono risultati significativi riguardo al disturbo cognitivo lieve (Mild Cognitive Impairment), una condizione che si colloca tra il normale invecchiamento cerebrale e la demenza. Non tutti i pazienti affetti da questa patologia evolvono verso forme più gravi di demenza, nonostante la presenza di vari fattori di rischio biologico e biomarcatori alterati. Questo fenomeno di resistenza alla progressione della malattia è stato oggetto di uno studio condotto da un team di ricercatori italiani, i cui risultati sono stati pubblicati nell’articolo intitolato ‘Electroencephalography-based signatures of cognitive resilience in individuals with stable mild cognitive impairment despite carrying a high-risk for dementia‘ sulla rivista Alzheimer’s & Dementia.
Dettagli dello studio e del progetto interceptor
Lo studio, guidato da Chiara Pappalettera, ingegnere biomedico e ricercatrice presso l’Irccs San Raffaele di Roma, è parte integrante del progetto Interceptor, avviato nel 2018 e finanziato dal Ministero della Salute e dall’Aifa. Questo programma di ricerca si propone di identificare precocemente i meccanismi che portano allo sviluppo delle demenze. Paolo Maria Rossini, direttore del Dipartimento di Neuroscienze dell’istituto romano e responsabile del progetto, ha dichiarato che lo studio ha coinvolto un totale di 351 soggetti con disturbo cognitivo lieve, seguiti nel corso di tre anni.
Al momento dell’arruolamento, i partecipanti hanno subito una valutazione approfondita, che ha incluso l’analisi di biomarcatori liquorali e plasmatici, come amiloide e tau, oltre a test genetici (APOE), neuroimmagini (risonanza magnetica e PET), elettroencefalogrammi per lo studio della connettività cerebrale, test neuropsicologici e valutazioni cliniche complete. Alla fine del follow-up, circa un terzo dei pazienti ha sviluppato una forma di demenza, con il 22% di essi diagnosticati con una variante clinicamente riconducibile alla malattia di Alzheimer. Tuttavia, oltre il 52% dei soggetti con due biomarcatori di rischio alterati non ha mostrato alcun segno di progressione verso la demenza.
Analisi della connettività cerebrale e resilienza
Rossini ha sottolineato l’importanza di comprendere perché alcuni pazienti con disturbo cognitivo lieve, nonostante i biomarcatori alterati, non sviluppano la malattia. Per rispondere a questa domanda, i ricercatori hanno confrontato gli elettroencefalogrammi dei pazienti che hanno sviluppato demenza con quelli di soggetti rimasti clinicamente stabili, definiti ‘stabili resilienti’. L’analisi della connettività cerebrale ha rivelato pattern distintivi nei soggetti resilienti, mostrando una maggiore capacità di sincronizzazione e connessione tra i lobi frontali per specifici ritmi cerebrali.
In particolare, sono emerse differenze significative nel rapporto tra il ritmo alfa e il ritmo delta, specialmente a livello del lobo temporale destro. Il ritmo alfa è associato a uno stato di vigilanza e rilassamento, mentre il ritmo delta è tipico delle fasi di sonno profondo. Queste caratteristiche neurofisiologiche sono interpretate dai ricercatori come segni di resilienza cerebrale, meccanismi che permettono al cervello di compensare i potenziali danni associati ai fattori di rischio biologici, preservando le funzioni cognitive per un periodo più lungo.
Prospettive future nella ricerca sulla resilienza cerebrale
Rossini ha evidenziato che lo studio dei fattori di resilienza rappresenta un approccio innovativo e strategico. Non si tratta solo di ridurre il rischio di demenza, ma di identificare e potenziare le capacità del cervello di resistere. I meccanismi di resilienza potrebbero diventare target terapeutici in futuro, con l’obiettivo di rafforzare la resilienza cerebrale e mantenere l’autonomia delle persone il più a lungo possibile. La ricerca continua a esplorare questi aspetti, con la speranza di sviluppare strategie efficaci per contrastare la progressione delle malattie neurodegenerative.
